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Una voce che si distingue

Marcello Fabbri: uno scrittore nato dal buio

Forse, è forza il primo termine con cui indicare il modo di poetare di Marcello Fabbri, ovvero energia, grinta persino: energico è il suo modo di proporsi, senza falsi pudori, con una sorta di coerenza robusta, di appassionato rigore morale in cui nulla è moralismo, e che ha come caratteristica precipua anche l’esplicitezza. Nelle tematiche da lui affrontate non manca la polemica, il grido, a volte altissimo, dal suono quasi ruggente; voce del disdegno contro l’ottusità umana, o la durezza dell’esperienza, o gli aspetti ineluttabili e tragici del vivere: talora, riportato su scala quotidiana, non visionaria, quasi l’antico urlo del capitano Achab.

Nei disdegni di Marcello Fabbri v’è più di qualche sprezzo, in quella fermezza che lui stesso indica talora come la propria “alterigia”: la signorilità dell’essere se stesso senza cedimenti o infingimenti, e senza paura. In questo il poeta appare nutrito di valori per lo più ormai lontani, appartenenti a generazioni passate, che in molti rimpiangiamo. Non dire anch’io, recita il titolo di una poesia che vieta di lamentarsi al lamento del dolore altrui, spiegando che esso è più grande del nostro, di quello del poeta stesso.

Forza è anche il suo ‘confessare’ emozioni, commozione, sentimenti, passioni o tenerezza d’affetti, e ancora, l’accettazione del più che trentennale buio in cui il destino lo ha immerso.

Vibra in Marcello Fabbri – scrittore che talvolta pare ancora stupirsi di essere tale –  un nobile senso della verità, fermo, e per così dire immedicabile, come qualcosa che non si può rinunciare ad esprimere; mentre il suo impeto sfiora sovente un declamato dalle risonanze retoriche, dal tono ammonitorio, senza quasi mai toccarlo. Il suo poetare è intessuto di autobiografia, che tuttavia, priva quasi del tutto di compiacimenti, ha per così dire carattere di confessione, di distaccata ammissione: una poesia dell’io, ma non dell’ego. Intensa e come brusca la malinconia della perdita, o l’immaginazione del passaggio ultimo, atteso a piè fermo.

Se leggiamo nel volume Dal quadrante dell’ombra i non molti componimenti di natura, di paesaggio per lo più marino, avvertiamo, nell’aggettivazione intensa e concreta di Fabbri, quello che (in chi ha sensibilità e passione per la bellezza) dalla memoria risorge dentro, molti anni dopo: quella visione più vera, distillata nella distanza, che è della mente e del cuore, ad occhi chiusi.

Uno studio attento meriterebbe la qualità del linguaggio che il poeta usa e talora si crea, guidato da un istinto che gli fa anche riprendere, elaborare echi di spunti popolari o di lontana esperienza. Ma è sempre avvertibile nelle sue scelte lessicali un estro proprio, una vis creativa vicina anch’essa all’alterigia, per la sicurezza con cui il poeta si inoltra nel suo inventare, nel fondere tradizione ed immaginazione, senza riconoscere norma che sia superiore alla propria. Il sole dell’ultimo uomo è uno dei componimenti che si segnala specialmente per la ricchezza estrosa degli accostamenti: “ricordo solo il canto del gallo all’alba tronche note di ferro in cristalli di aria,  il tempo inutilmente speso carbonioso esalare dei giorni, il sole, in questo quadro di autodistruzione dell’uomo, agonia in un cielo di opaco smeriglio”.

Accostamenti di grande forza espressiva, sintesi creativa, quale cifra stessa della poesia: quantunque sia l’ampiezza una caratteristica precipua della scrittura di Marcello Fabbri.

Lo scrittore (Firenze 1923) era stato, prima della cecità, disegnatore e ritrattista a carboncino e sanguigna. Inizierà a pubblicare negli anni Settanta: il primo volume di liriche, Il pane di sasso (Il Fauno, Firenze), è del 1978. Nel 1984 (Nuova Fortezza, Livorno) esce Tedesco, due racconti lunghi sul tema della guerra, nel 1985 un secondo volume di liriche, Il sole sulla scala (Rebellato, Venezia);  nel 1992 la raccolta di liriche di guerra Al nemico sconosciuto (Nardini  editore, Firenze) vince il premio Città di Firenze-Fiorino d’Oro. Per presentare una selezione di sue poesie, The light of memory (Olive Press, Glastonbury Ct 1994), tradotte in inglese, Marcello Fabbri è stato invitato in alcune università americane (Yale, Hartford, Connecticut State) e al Trinity College di Hartford. Nel 1997 pubblica presso le Edizioni Medicea di Firenze un’ampia antologia della sua produzione poetica con il titolo Dal quadrante dell’ombra.

Escono negli stessi anni, pubblicati dallo stesso editore, i tre romanzi La doppia morte di Ubliomov, Il sergente che non poteva morire, Un’alba inquieta del dopoguerra a Firenze, in cui lo scrittore mostra grandi doti di narratore, una fresca scorrevolezza che tiene sempre attento il lettore: sia nei temi e sfondi drammatici, sia nel gioco, anche autoironico e spiritoso, in cui immerge varie situazioni e personaggi. Colpisce in questa prosa, nelle riflessioni, nei dialoghi, la grande forza dell’intelligenza dell’autore e protagonista, una sua padronanza concreta delle cose. In certo senso tutto è cosa, nel narrare ‘tradizionale’ di Fabbri, la parola come la guerra come la natura, di cui non mancano scorci intensamente poetici e insieme precisi (luci, colori, stagioni): ed ogni cosa ci viene porta in una dizione distesa e minuziosa,  eppure sempre vivace, oltre che ricca di affetti.

Narrando la propria storia tormentata e complessa lo scrittore è lucidamente critico anche, o in primo luogo, di sé. Pure, la coerenza del ventenne sergente, protagonista del secondo romanzo, gli fa dire d’essere orgoglioso di definirsi un vinto, “avendo concluso la sua avventura militare contro il nemico al quale la guerra era stata dichiarata nel 1940”. 

Hanno scritto di lui, tra gli altri, Guido Di Pino, Giorgio Luti, Gian Carlo Oli, Vittorio Vettori, Ernst Livori.

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